Patogenesi della schizofrenia nelle vie sinaptiche
GIOVANNI ROSSI
NOTE E NOTIZIE - Anno XVIII – 15 maggio 2021.
Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org
della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia).
Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società,
la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici
selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste
e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.
[Tipologia del testo: RECENSIONE]
La schizofrenia, nell’attuale concezione di
categoria nosografica che rappresenta il prototipo della psicosi cronica
caratterizzata da deliri e allucinazioni, è oggi diagnosticata con una
frequenza maggiore rispetto al passato recente e la sua attualità clinica ripropone
il problema irrisolto della sua eziopatogenesi. Fin da quando gli studi, ormai
classici, sui gemelli monovulari registravano una concordanza del 60%, si è
compreso che il ruolo dei fattori genetici, pur significativo, non avrebbe
potuto spiegare un 40% di probabilità di non sviluppare la patologia con lo
stesso patrimonio genetico[1]. Da
allora, le vie seguite dalla ricerca sulla patogenesi sono state numerose, ma
sempre condotte nell’ottica dell’accertamento di un unico processo generatore
dei sintomi, anche se lo spettro degli alleli di rischio, individuati con le
analisi GWAS condotte su grandi numeri, è andato sempre estendendosi.
Di recente è emersa la partecipazione del
complemento nell’eziopatogenesi della schizofrenia. In particolare, la più significativa
variante associata alla schizofrenia riflette un’accresciuta espressione del
componente 4A (C4A) del complemento. Rimane, tuttavia, poco chiaro come C4A
interagisca con altri geni di rischio per lo sviluppo della schizofrenia o se
il sistema del complemento sia più estesamente implicato nella patogenesi della
psicosi, come sostenuto da alcuni gruppi di ricerca.
Minsoo Kim e
colleghi coordinati da Michael J. Gandal hanno
affrontato il problema ottenendo un risultato interessante.
(Kim M. et
al., Brain gene co-expression networks link complement signaling
with convergent synaptic pathology in schizophrenia. Nature Neuroscience – Epub ahead of print doi: 10.1038/s41593-021-00847-z,
2021).
La provenienza degli autori è la seguente: Department
of Pharmacology and Experimental Therapeutics, Boston University School of
Medicine, Boston, Massachusetts (USA); Department of Psychiatry, University of
Pittsburgh, Pittsburgh, Pennsylvania (USA); Department of Biostatistics, University
of Pittsburgh, Pittsburgh, Pennsylvania (USA); Division of Psychiatric Genomics,
Icahn School of Medicine at Mount Sinai, New York, NY (USA); Department of Psychiatry,
Icahn School of Medicine at Mount Sinai, New York, NY (USA); Mental Illness
Research at Medical Center in Bronx, NY (USA); Center for Systems Neurogenetics
of Addiction, The Jackson Laboratory, Bar Habor,
Maine (USA).
Prima di esporre in breve i contenuti dello studio qui recensito, si
propone un’introduzione alla clinica della psicosi schizofrenica tratta da una
nostra precedente pubblicazione:
“La schizofrenia, che interessa l’1% della popolazione mondiale, costituendo
una delle maggiori cause di disabilità mentale, è la più grave delle
alterazioni psichiche che accompagnano l’intera vita di un paziente psichiatrico,
dall’esordio in età giovanile o all’inizio dell’età adulta fino alla morte, di
dieci anni più precoce della media nella popolazione generale. La
concettualizzazione di questo disturbo come malattia delle mente si deve al grande
nosografista tedesco Emil Kraepelin che, prendendo le mosse dal caso di uno
studente brillante diventato inabile per i compiti cognitivi più semplici dopo la
comparsa dei sintomi, identificò un piccolo gruppo di pazienti con un simile
decorso caratterizzato dalla perdita dell’intelligenza e, per questo elemento
che gli parve caratterizzante, propose la definizione diagnostica di demenza
praecox.
Era dunque ben presente l’aspetto relativo al limite cognitivo, poi per
decenni trascurato, soprattutto per l’influenza delle teorie psicodinamiche
sulla genesi del disturbo, che attribuivano a conflitti inconsci lo sviluppo di
un funzionamento mentale aberrante e non all’alterazione del fondamento neurobiologico
cerebrale, necessario anche per i più elementari processi di estrazione di
significato dai messaggi verbali, oltre che per induzione, deduzione,
riconoscimento di nessi di causalità e vincoli condizionali.
Lo stesso Eugen Bleuler[2], che introdusse il termine “schizofrenia”
per indicare la frequente scissione (schizo-) nello psichismo e, in
particolare, la separazione del tono affettivo ed emotivo dalla cognizione espressa
nella comunicazione, aveva ben presente il difetto intellettivo che peggiorava
col progredire della malattia.
A quell’epoca, l’opinione degli psichiatri era concorde nel ritenere questo
quadro psicopatologico la conseguenza di una malattia del cervello con una forte
base genetica, e caratterizzata da un processo patologico che si supponeva
diffuso nel parenchima cerebrale, con particolare compromissione della
corteccia, ritenuta la base dei processi intellettivi. L’unica possibilità
esistente a quel tempo di studio del cervello consisteva nell’osservazione
necroscopica e nel prelievo autoptico di campioni di tessuto cerebrale, per lo
studio istologico.
Gli stessi padri fondatori della neuropatologia, Nissl, Alzheimer e
Spielmeyer, condussero ricerche istologiche post-mortem sul cervello di
pazienti schizofrenici, descrivendo apparenti alterazioni che si rivelarono
incostanti e non caratterizzanti[3]. In particolare, nel 1897 Alzheimer
segnalò una scomparsa locale di cellule gangliari negli strati esterni della
corteccia cerebrale; Klippel e Lhermitte (1906) descrissero zone di
demielinizzazione focale, il cui reale valore di reperto istopatologico fu
contestato, molto tempo dopo, da Adolf Meyer e poi da Wolf e Cowen. Anche
Buscaino in Italia (1921), capostipite di una famiglia di neurologi illustri, compì
studi neuropatologici sulla struttura del cervello schizofrenico, descrivendo
formazioni a grappolo, che si rivelarono poi artefatti di preparazione del tessuto.
Josephy (1930) descrisse una sclerosi cellulare e una degenerazione grassa
degli strati corticali, che non trovarono riscontro in altri studi. Bruetsch,
nel 1940, credette addirittura di aver rinvenuto dei focolai reumatici nell’encefalo
psicotico; sicuro della bontà e significatività del reperto, postulò un ruolo
eziologico per la febbre reumatica.
Nel 1952 Winkelman riscontrò nel cervello schizofrenico una perdita diffusa
di neuroni, ma furono sollevati dubbi circa la significatività del reperto che
si ritenne potesse essere stato generato dalle procedure istologiche impiegate.
Allora, nel 1954, Cécilie e Oskar Vogt[4], per superare questo problema, allestirono
uno studio che prevedeva un’accurata indagine seriale degli emisferi cerebrali
mediante sezioni sottili dello spessore di 8 μ in uno studio controllato,
in cui i reperti istologici dei cervelli dei pazienti erano comparati con
identiche sezioni del cervello di persone non affette da psicopatologia e
decedute per cause non cerebrali alla stessa età. I Vogt trovarono in tutti i cervelli
schizofrenici alterazioni assenti nei cervelli sani, anche se la
localizzazione, l’aspetto istologico e la densità variavano da un caso all’altro.
I tre reperti principali dei Vogt furono cellule colliquanti (Schwundzellen),
degenerazione vacuolare e liposclerosi.
Negli ultimi decenni, dopo oltre cinquanta anni durante i quali la
concezione neuropatologica della schizofrenia è stata abbandonata in luogo di
teorie eziologiche psicoanalitiche, relazionali e comportamentali, si è tornati
su più solide basi, fornite dalle metodiche di neuroimmagine, dalla nuova
genetica e dalle scoperte di neurobiologia molecolare e neurochimica, a concepire
le psicosi schizofreniche come conseguenza di alterazioni del cervello[5]. Dalle differenze nel metabolismo
cerebrale, nell’espressione dei recettori, nelle dinamiche sinaptiche, negli
equilibri fra sistemi neuronici, nelle funzioni degli astrociti, fino a quelle
emerse dallo studio delle connessioni secondo i metodi del campo specializzato
della connettomica, si dispone di un’imponente raccolta di dati che individua
le basi cerebrali di una fisiopatologia, che non potrebbe essere spiegata nei
termini obsoleti della “reazione maggiore”, contrapposta alla “reazione minore”
costituita dai disturbi d’ansia”[6].
Due anni fa ho ricordato un modello neuroevolutivo
della schizofrenia[7] attualmente oggetto di insegnamento
in molte facoltà mediche di tutto il mondo e proposto per la prima volta da Keshavan nel 1999: durante l’embriogenesi noxae evolutive
portano alla displasia delle strutture costituenti alcune specifiche reti
neuroniche, causando in tal modo i segni premorbosi
cognitivi e psicosociali; durante l’adolescenza, un’eccessiva eliminazione di
sinapsi determina un’iperattività dopaminergica fasica e precipita la psicosi. Keshavan nota che, dopo la manifestazione clinica della
malattia, le alterazioni neurochimiche possono condurre a processi
neurodegenerativi.
Il motivo del successo di questo modello è dato dal “sostegno” ricevuto da
numerose evidenze sperimentali. In realtà, si tratta di una ricostruzione
ragionevole e coerente con i dati dai quali è stata desunta, e nulla esclude
che sia corretta; tuttavia rimane troppo generica rispetto all’esigenza di
capire perché e come le “noxae” causino
una displasia responsabile di quei sintomi precoci e perché si determini una
perdita di sinapsi che causa iperfunzione dopaminergica[8].
Proprio il legame tra fattori genetici e meccanismi
patogenetici potrebbe aprire la via per la comprensione anche del ruolo e del
modo in cui intervengono i fattori ambientali. Chiarire questi aspetti, almeno
in via preliminare, potrebbe consentire di risolvere alcuni problemi dell’insegnamento
della clinica psichiatrica delle psicosi. In proposito, Giovanna Rezzoni faceva
notare le contraddizioni del manuale diagnostico e statistico dell’American Psychiatric Association:
“Nel DSM-5 si riporta un forte contributo di fattori
genetici all’eziopatogenesi della schizofrenia ma, subito dopo, si legge dell’assenza
di storia familiare di psicosi nella maggior parte dei casi[9]. Al contrario,
nell’edizione precedente si citano dati desunti dagli studi epidemiologici
maggiori di quegli anni, che riportano una probabilità di sviluppare
schizofrenia di 10 volte superiore alla popolazione generale per coloro che
abbiano un parente biologico di primo grado affetto, e un tasso di concordanza
fra gemelli monozigoti più elevato di quello registrato fra gemelli dizigoti”[10]”[11].
Torniamo allo studio qui recensito.
Minsoo Kim e
colleghi coordinati da Michael J. Gandal hanno
integrato vari set di dati genetici e trascrittomici ottenuti
in grande scala per interrogare il ruolo funzionale del sistema del
complemento e di C4A nel cervello umano.
Inaspettatamente, i ricercatori non hanno trovato
alcun significativo incremento tra i geni del sistema del complemento
noti per la connessione con la schizofrenia. Per converso, l’analisi delle reti
di co-espressione del cervello, usando C4A come gene-seme rivelano che i
geni regolati per una minore espressione, quando aumenta l’espressione di C4A,
mostrano un forte e specifico aumento di rischio genetico per la schizofrenia.
Questo segnale genomico convergente riflette
processi sinaptici, ed è risultato essere sessualmente dimorfico e più marcato
nelle regioni della corteccia cerebrale. Inoltre, è accentuato dal fumo di
sigaretta. Soprattutto, questi risultati indicano che le vie sinaptiche,
piuttosto che i componenti del sistema del complemento, costituiscono la
forza trainante nel conferimento del rischio di schizofrenia.
L’autore della nota ringrazia la dottoressa Isabella
Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura degli scritti di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del
sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).
Giovanni Rossi
BM&L-15 maggio 2021
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La Società Nazionale di Neuroscienze BM&L-Italia, affiliata alla International
Society of Neuroscience, è registrata presso l’Agenzia delle Entrate di Firenze,
Ufficio Firenze 1, in data 16 gennaio 2003 con codice fiscale 94098840484, come
organizzazione scientifica e culturale non-profit.
[1] Rimane il problema, sempre posto
dalla nostra scuola neuroscientifica, di determinare se il quadro clinico della
schizofrenia costituisca un’entità patologica o rappresenti una sindrome causata
da processi patogenetici diversi.
[2] Sulla storia delle origini della
diagnosi di schizofrenia e sull’evoluzione del concetto in psicopatologia vi sono
numerosi riferimenti negli scritti pubblicati nelle “Note e Notizie”; nella
sezione “In Corso” sotto il titolo “La concezione dei disturbi mentali nella
storia” si può leggere una cronologia che, in brevissime sintesi concettuali,
elenca l’evoluzione che si è avuta nel concetto di malattia mentale dalle prime
tracce scritte, risalenti al 3400 a.C., fino ai giorni nostri.
[3] Le nozioni storiche riportate di
seguito sono tratte da una relazione del nostro presidente; per le indicazioni
bibliografiche complete si veda in Silvano Arieti, Interpretazione
della Schizofrenia, in 2 voll., Feltrinelli, Milano 1978.
[4] Ai coniugi Vogt è intitolato un
istituto di ricerca nel quale è esposta un’interessante collezione di cervelli.
Oskar Vogt divenne celebre per lo studio del cervello di Lenin, nel quale
rilevò cellule piramidali giganti della corteccia di dimensioni notevolmente
superiori alla media.
[5] Sicuramente una parte non
trascurabile in questa evoluzione l’hanno avuta i numerosi istituti di ricerca
che hanno dedicato le proprie attività alla ricerca di correlati neurobiologici
dei disturbi mentali e le riviste, come Molecular Psychiatry, che hanno
consentito la diffusione della conoscenza di risultati che hanno modificato dei
punti di vista che resistevano da decenni.
[6] Note e Notizie 16-11-19
Trattamento cognitivo della schizofrenia. Si veda anche: Note e Notizie 07-12-19
Differenze in S100b tra persone affette da schizofrenia.
[7]
Note e Notizie 16-02-19
Nella schizofrenia la microglia riduce le sinapsi.
[8] È evidente la costruzione
deduttiva da dati e inferenze precedenti. Quando è stato proposto il modello, il
campo di studi della fisiopatologia della schizofrenia era ancora dominato dall’ipotesi
dell’iperfunzione dopaminergica, desunta dall’azione anti-dopaminergica di fenotiazinici, butirrofenonici e altri
neurolettici di prima generazione efficaci nel ridurre deliri e allucinazioni
degli schizofrenici. Negli ultimi venti anni si è consolidata l’evidenza della
partecipazione di tutti i sistemi trasmettitoriali alla
fisiopatologia, con una prevalenza di interesse anche farmacologico per i
sistemi neuronici a segnalazione glutammatergica.
[9] Cfr. AAVV., Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders
DSM-5, American Psychiatric Association, p. 103, American Psychiatric
Publishing, Washington DC 2013.
[10] Note e Notizie 02-11-19
Interazione fra genetica e ambiente nella schizofrenia.
[11] Note e Notizie 21-03-21 Patogenesi
della schizofrenia da splicing alternativo.